lunedì 3 marzo 2014

# Una stanza senza libri è come un corpo senza Anima.

Uno studio in rosso


Chi mi conosce sa quanto io ami Sir Arthur Conan Doyle

Da poco mi sono fatta un regalo: ho comprato il Mammut di Sherlock Holmes e per la seconda volta ho appena finito di leggere Uno studio in rosso, il suo primissimo lavoro sul leggendario consulente della polizia ambientato nella nebbiosa Londra vittoriana. 
Piano piano farò una piccola recensione anche degli altri suoi lavori, ma mi sembra naturale cominciare in ordine cronologico.

Uno studio in rosso, scritto da Doyle e pubblicato nel 1887 senza minimamente immaginare lo straordinario successo letterario che ottenne in seguito, parla di un duplice omicidio commesso con il solo scopo della vendetta personale. Il rischio di spoilerare, quando si parla dei gialli deduttivi di Doyle, è altissimo, quindi cercherò di fare molta attenzione, limitandomi a darvi una flebile traccia e un parere personale. 

In questo primo lavoro di Doyle, scopriamo come Holmes finisca col conoscere, e diventare coinquilino, del dottor Watson, al 221B di Baker Street, il più famoso indirizzo del pianeta. 

Il dottor Watson, medico militare ferito ed emaciato, ritorna a casa dalla guerra in Afghanistan e si stabilisce a Londra in un hotel, ma ben presto le sue finanze iniziano a scarseggiare e il medico si trova di fronte a due scelte: abbassare moltissimo il suo tenore di vita per poter alloggiare ancora lì o trovarsi un appartamento in affitto dividendo però le spese con un coinquilino. 
Grazie ad un incontro del tutto causale e inaspettato con un vecchio amico e collega che lavora all'università di medicina, scopre che un tale di nome Sherlock Holmes sta per l'appunto cercando un coinquilino. L'amico accompagna così Watson al laboratorio dell'università, sicuro di trovarci come sempre al lavoro Holmes. Non appena Sherlock poggia lo sguardo sul dottore, mentre i due si stringono per la prima volta la mano, egli esordisce con un "Vedo che è stato in Afghanistan", lasciando Watson letteralmente di stucco.
Holmes, in vista della probabile convivenza, elenca a Watson i suoi difetti, come ad esempio suonare il violino, fumare tabacco forte e altalenare momenti di iperattività a momenti di apparente depressione, chiedendo al medico di elencare quindi anche i suoi difetti. Holmes, ascoltata la lista di Watson, dice di aver messo gli occhi su un appartamento in Baker Street e lo invita a visionarlo il giorno successivo, insieme a lui. 
Una volta visionato, i due decidono di prenderlo in affitto e da quel momento Watson entrerà a far parte - all'inizio inconsapevolmente - della misteriosa e affascinante vita del consulente investigativo più conosciuto e discusso di Londra, seguendolo sulle scene dei crimini, fornendo la sua consulenza medica e scrivendo resoconti dettagliatissimi di tutti i casi affrontati.
In realtà, se vi è capitato di leggere qualcosa di Sherlock Holmes, siete già al corrente del fatto che proprio i resoconti del dottor Watson, vanno da soli a creare i libri di Doyle.
Dopo alcune settimane di convivenza, Watson, sempre più ossessionato e incuriosito dalla particolarissima personalità del suo coinquilino, parteciperà al suo primo caso insieme a Holmes. I due investigheranno dapprima sulla morte sospetta di un uomo di nome Drebber, avvelenato e ritrovato in una casa disabitata e successivamente su quella del suo segretario Stangerson, ucciso con una pugnalata nella camera d'hotel dove alloggiava. Insieme ai due poliziotti di Scotland Yard, Lestrade e Gragson, Watson e Holmes risolveranno il caso. Non intendo andare oltre per non rovinarvi la storia e come sempre vi consiglio di non leggere la trama su Wikipedia, visto che hanno il pessimo vizio di raccontare fedelmente anche il finale.
Lo stile narrativo di Doyle, malgrado non sia proprio contemporaneo, è fluido e scorrevole. Affatto pesante o estremamente descrittivo. Il personaggio di Sherlock, come sanno sicuramente anche coloro che non si sono mai cimentati con i libri, è intrigante e misterioso, misantropo tranne nei confronti di Watson, leggermente misogino, deliziosamente egocentrico e innegabilmente supponente. Il suo modo di vedere il crimine, di gestire gli indizi, di ragionare esclusivamente per deduzioni e non per ipotesi, lo rende colmo di fascino e ciò che intriga il lettore è proprio l'idea di potersi mettere alla prova, duellando con l'intelligenza del più grande detective di tutti i tempi.
Di Sherlock Holmes però ce ne sono davvero pochissimi al mondo, forse addirittura solo uno, per cui sappiatelo: il lettore resterà per sempre incuriosito da una sola domanda: "Come diavolo ci riesce?"
Proprio questo, del resto, è il segreto del successo di Sherlock Holmes.
Termino questa mia breve recensione con una curiosità che non tutti sanno e che, per comodità, incollo qua direttamente da Wikipedia:

Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase «Elementare, Watson!» (Elementary, my dear Watson!), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso. 

In realtà questa celebre frase non è mai stata pronunciata testualmente dal personaggio nelle storie scritte da Doyle.

In una pagina della raccolta Le memorie di Sherlock Holmes, nel racconto L'uomo deforme, e anche in una pagina del romanzo Uno studio in rosso, Holmes, rispondendo a una domanda di Watson, fa semplicemente uso del modo di dire «Elementare!», riferito a un suo ragionamento; parimenti nel racconto L'avventura degli omini danzanti, dalla raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes, rivolgendosi a Watson afferma: «Ogni volta che glielo si spiega, qualsiasi problema diventa per lei elementare»; ne Il segno dei quattro afferma: «La cosa è di una semplicità elementare».

La frase «Elementare, mio caro Watson!» ha fatto la sua apparizione in uno dei tanti film sul grande detective. 

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