127.0.0.Chichicastenango, Guatemala - Giorno 6
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26 giugno
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Un suonatore di Marimba |
Chichicastenango, Guatemala
15 Aprile 2007
Se ricordate, dopo
la visita a Tikal con la sua giungla e le piramidi Maya, ci eravamo
lasciati ad Antigua, dove abbiamo visto casette colorate e fascinose, nonché
antiche chiese in rovina, conventi, giardini lussureggianti nascosti
dentro splendide ville, mercati d’artigianato, vicoli in ciottolato,
lampioncini in ferro battuto, vulcani e bamboline acchiappasogni.
Nel
cuore di Antigua, il Parc Central, abbiamo visto affacciarsi storici
palazzi come quello De Los Capitanes Generales, sede fino al 1773, anno
del catatrofico terremoto che colpì la cittadina, del governo di tutta
l’America centrale.
Oggi, continueremo il nostro viaggio parlando di
Chichicastenango (che si pronuncia “cicicastenango” poiché la H in
spagnolo è sempre muta), ma prima ci fermeremo in un’immensa piantagione
di caffè, per assaggiare i chicchi direttamente dalla pianta e scoprire
i segreti della sua lavorazione.
Il nostro gruppetto formato da 15
persone più la guida, è piuttosto affiatato e il nostro viaggio sta
procedendo nel migliore dei modi. Il livello di divertimento è
altissimo, esattamente come quello di caldo e stanchezza : )
Come dicevo, prima di
spostarci verso la pittoresca Chichicastenango, abbiamo fatto tappa in
una splendida e immensa piantagione di caffè, non lontano da Antigua.
Passeggiare fra i filari di piante ascoltando Rafael raccontarci la
storia di questa importante bevanda è stato molto istruttivo e
suggestivo. In pochi lo sanno, ma il caffè del Guatemala, la cui coltivazione, introdotta dai padri Gesuiti nel 1773, è uno dei migliori del mondo.
Riporto, a tal proposito, qualche parola di Slow Food, su questo importante presidio:
Huehuetenango, situato ai piedi dei Cuchumatanes, la più alta catena montuosa non vulcanica del Centro America, è una delle aree più vocate del paese per la caficoltura. Le correnti d’aria calda provenienti dall’istmo di Tehuatepec, infatti, incontrando l’aria fredda che soffia sulle montagne dei Cuchumatanes, consentono di coltivare caffè fino a 1900 metri. Ed è proprio alle altitudini maggiori che si ottiene il prodotto migliore. Fino alla conquista spagnola del 1525, Huehuetenango è stata la capitale del regno Mam. Il suo territorio, nella parte nordoccidentale del Guatemala, al confine con il Messico, ha un’altitudine che va dagli 850 ai 3700 metri e offre una straordinaria varietà di ecosistemi (dal bosco umido subtropicale alle pinete).
Le popolazioni indigene, che costituiscono la larga maggioranza degli abitanti, discendono da differenti popoli Maya, tra cui i Mam, gli Akateco, i Chuj, i Kanjobal, gli Jacaltechi, ciascuno con una propria cultura e lingua ben distinta. A causa di una secolare esclusione sociale, aggravata dalla crisi internazionale dei prezzi del caffè dei primi anni duemila, sono fra i popoli più poveri del Centro America.
A Huehuetenango il caffè è praticamente una monocoltura e l’economia della regione dipende dalla sua esportazione. L’unica via di uscita da questa situazione sfavorevole è diversificare: puntando sul caffè di altura e di alta qualità e introducendo altri prodotti (peperoncino, anice, ortaggi) nelle zone meno vocate. Il caffè del Presidio è ricavato da piante di Coffea arabica (delle varietà Typica, Bourbon e Caturra) coltivate all’ombra di alberi ad alto fusto. La raccolta è manuale: le ciliegie sono staccate una a una e riposte in ceste di vimini legate ai fianchi. I chicchi sono estratti dalle bacche artigianalmente, attraverso un delicato processo di fermentazione che inizia entro quattro ore dalla raccolta e dura 24-36 ore. Dopo la spolpatura, i grani seccano al sole per almeno tre giorni, continuamente rivoltati con un rastrello.
Riporto, a tal proposito, qualche parola di Slow Food, su questo importante presidio:
Huehuetenango, situato ai piedi dei Cuchumatanes, la più alta catena montuosa non vulcanica del Centro America, è una delle aree più vocate del paese per la caficoltura. Le correnti d’aria calda provenienti dall’istmo di Tehuatepec, infatti, incontrando l’aria fredda che soffia sulle montagne dei Cuchumatanes, consentono di coltivare caffè fino a 1900 metri. Ed è proprio alle altitudini maggiori che si ottiene il prodotto migliore. Fino alla conquista spagnola del 1525, Huehuetenango è stata la capitale del regno Mam. Il suo territorio, nella parte nordoccidentale del Guatemala, al confine con il Messico, ha un’altitudine che va dagli 850 ai 3700 metri e offre una straordinaria varietà di ecosistemi (dal bosco umido subtropicale alle pinete).
Le popolazioni indigene, che costituiscono la larga maggioranza degli abitanti, discendono da differenti popoli Maya, tra cui i Mam, gli Akateco, i Chuj, i Kanjobal, gli Jacaltechi, ciascuno con una propria cultura e lingua ben distinta. A causa di una secolare esclusione sociale, aggravata dalla crisi internazionale dei prezzi del caffè dei primi anni duemila, sono fra i popoli più poveri del Centro America.
A Huehuetenango il caffè è praticamente una monocoltura e l’economia della regione dipende dalla sua esportazione. L’unica via di uscita da questa situazione sfavorevole è diversificare: puntando sul caffè di altura e di alta qualità e introducendo altri prodotti (peperoncino, anice, ortaggi) nelle zone meno vocate. Il caffè del Presidio è ricavato da piante di Coffea arabica (delle varietà Typica, Bourbon e Caturra) coltivate all’ombra di alberi ad alto fusto. La raccolta è manuale: le ciliegie sono staccate una a una e riposte in ceste di vimini legate ai fianchi. I chicchi sono estratti dalle bacche artigianalmente, attraverso un delicato processo di fermentazione che inizia entro quattro ore dalla raccolta e dura 24-36 ore. Dopo la spolpatura, i grani seccano al sole per almeno tre giorni, continuamente rivoltati con un rastrello.
Nel momento di piena maturazione delle bacche, cioè quando
da verdi diventano di un bel rosso rubino, circa duemila persone vengono
impiegate per raccogliere a mano bacca per bacca. Il raccolto viene poi
trasportato nelle ceste in un secondo luogo deputato al bagno delle bacche in
enormi pozze d’acqua; dopo di che vengono lavate e distese ad asciugare
al sole fino a quando la buccia non si stacca da sola lasciando il seme
intatto, impiegando circa una settimana. Le bucce vengono poi
ammucchiate in giganteschi cumuli a macerare, diffondendo per la
piantagione intera un pungente odore di mosto. Con i quintali di bucce
viene poi riconcimata la piantagione stessa, poiché del caffè non si
butta mai nulla. A questo punto i chicchi di caffè sono pronti per la
spazzolatura, una sorta di pulizia del chicco, la separazione, ovvero
una bonifica chicco per chicco del raccolto, eliminando quelli
danneggiati, eventuali corpi estranei come sassolini, rametti, ecc… e
infine per la molto più famosa tostatura.
Normalmente in Guatemala, al
contrario di altri posti, non viene utilizzato nessun prodotto chimico
per proteggere le piante dagli insetti, ma semplici trucchetti, come
appendere bottiglie di plastica piene di una sostanza che li tiene
lontani. Una sorta di repellente, ma assolutamente naturale.
Tutto il
gruppo ha voluto assaggiare le bacche, staccandole direttamente dalla
pianta e pulendole alla meglio con una vigorosa strofinata di mani e
beh, posso assicurarvi che sono misteriosamente dolcissime, al contrario
del chicco di caffè, il seme, che è amaro da morire.
Terminata la
visita alla piantagione, ci siamo diretti verso il coloratissimo mercato
indigeno di Chichicastenango, il più famoso di tutto il centro America.
Dista circa 100 km da Antigua e per arrivarci ci vogliono più o meno
due ore. I giorni di mercato sono il giovedì e la domenica e
gironzolando per le bancarelle è possibile acquistare prodotti di
artigianato locale, guatemalteco e spagnolo. Famoso soprattutto per i
meravigliosi e coloratissimi tessuti, è facile trovare anche
abbigliamento, borse, souvenir, oggettistica, vasellame, frutta,
verdura, uova, fiori, piante medicinali, accessori, maschere indigene
intarsiate nel legno, flauti, gioielli e persino animali domestici
(ahimé). Il mercato è letteralmente spaccato in due perché una parte è
palesemente rivolta ai turisti mentre un’altra alla popolazione locale.
Personalmente mi sono regalata una bella borsa alla modica cifra di 195
Quetzal. Poco meno di 20 Euro. Il Quetzal è la moneta locale e prende il
nome dal bellissimo uccello simbolo del Guatemala.
Santo Tomás
Chichicastenango, o semplicemente Chichicastenango, è un comune facente
parte del Dipartimento di Quiché. A Chichicastenango non c’è però solo
il famoso mercato, ma anche un paio di chiese molto cariche di… come
dire, energia, persino per me che ho un concetto di Dio tutto mio e che nulla ha a che fare con le religioni.
Una è la chiesa di calce bianca Santo Tomás, in stile
coloniale, arroccata in cima ad una pila di gradini altrattanto bianchi
stracolmi di persone che vendono fiori, cucinano, chiedono l’elemosina o
un miracolo. Si vocifera che questa chiesa così particolare sia stata
costruita sulle rovine di un antico tempio Maya e non fatico affatto a
crederci. Vale la pena andare a Chichicastengo, a prescindere dal mercato,
perché si tratta di un paesino molto pittoresco, attorniato da
splendide colline e strade silenziose.
L’altra chiesa, il Calvario, è
altrettanto particolare. Per raggiungerla si passa da una strada dove vi
è un lunghissimo murales, coperto nei giorni di mercato, che racconta come
la guerra civile sia stata percepita dalla popolazione indigena. Anche
in questa chiesa vengono messi in atto rituali di purificazione e
sacrificio al fine di chiedere al Signore un miracolo o una grazia. Sul
pavimento sono sparsi profumati aghi di pino, le candele accese sono
migliaia. Vi sono in ogni angolo bottiglie di Coca Cola, liquori e
fiori; il tutto a scopo rituale. Questi riti sacri sono aperti anche ai
turisti, ma ovviamente è possibile assistere e partecipare solo pagando
una piccola cifra. Non è quasi mai permesso fare fotografie o video ed è
un aspetto a cui la popolazione tiene moltissimo.
I primi due giorni di novembre, uomini e donne si recano al cimitero per mangiare, celebrare i loro morti
e far giocare i loro bambini con gli aquiloni, mentre un’altra data
interessante per una visita è il 7 dicembre, durante la quale viene
bruciato il Diavolo. In ogni strada viene dato fuoco alla spazzatura,
con lo scopo di liberare il paese dagli spiriti maligni.
Rafael ci ha
messo in guardia sulla faccenda dell’elemosina che spesso viene chiesta a
ogni angolo, istruendoci a non farla, ma invitandoci semmai a comprare
il loro artigianato e i prodotti della loro terra. Dare loro soldi non è
il modo corretto per aiutare questa popolazione così povera perché li si abitua a non lavorare e a vivere sulle spalle di turisti
impietositi, mentre è necessario che loro mantengano viva la loro
cultura, l’artigianato locale, le tradizioni e il commercio.
Questo buon
proposito è andato immediatamente a farsi fottere una volta seduta
nella chiesa di Santo Tomás, su una panca in fondo alla navata, nel vociare che arrivava ovattato dal mercato, nella penombra e nel profumo
della cera e dell’incenso che invedeva l’aria.
Vi spiego subito perché.
Dovete sapere che i bambini guatemaltechi sono meravigliosi. Le bambine
piccoline, in particolar modo, sono di una bellezza fuori misura e
spesso i genitori approfittano del loro fascino per mandarli in giro a
chiedere la carità, sapendo di far breccia molto più facilmente nel
cuore dello sprovveduto turista di turno.
Così, quando una bimbetta sui 4 anni
si è avvicinata alla sottoscritta, allungando il palmo della manina, con quegli occhi grandi e neri come una notte senza stelle, il
visino triste e sporco e la vocina strozzata nel suo vestitino logoro e i
piedi infilati in sandali sfatti più grandi di almeno tre numeri, io mi
sono sciolta come neve al sole e il mio cuore si è incrinato. E’ un
momento che non potrò dimenticare mai.
“Un Quetzal por favor…” mi ha
sussurrato alzando la manina con occhi lucidi e lì, signori, ho detto
addio ai buoni propositi. Addio alle parole di Rafael e alle sue
raccomandazioni. Le ho messo nella microscopica manina una moneta e ho
desiderato ardentemente prenderla in braccio e portarla via per darle
tutta la gioia del mondo.
Lei si è messa la monetina nella tasca e senza
accennare nemmeno un sorriso, col suo sguardo profondo come un immenso
buco nero, ha allungato di nuovo la manina verso di me, evidentemente
istruita a dovere dai genitori e molto più brava di me a rispettare le
direttive, ha ripetuto “Un Quetzal por favor…” .
Mi sono dovuta
violentare per non dargliene un altro perché se fosse stato per me,
avrei svuotato tasche, portafoglio e conto in banca per quel faccino.
Uscita dalla chiesa, col cuore pesante e l’immagine di quella bimba che
si aggira fra le panche a chiedere Quetzal, mi sono sentita un’enorme, gigantesco
cumulo di sterco. Abbiamo le scarpe e ci lamentiamo, ciechi di fronte a
tutto ciò che non ci riguarda personalmente. Ciechi di fronte alla sofferenza, umana o animale che sia o, ad esempio, di fronte a quelli che tutti chiamano immigrati e che io preferisco chiamare vittime. Perché chiunque vorrebbe poter vivere in pace a casa sua.
I 18 gradini che mi hanno
riportato al centro del mercato, della confusione e dei turisti,
rappresentano i mesi del calendario Maya, ma sono sicura che lei,
questo, non lo sa.
Ed è un vero peccato.