lunedì 24 febbraio 2014

La verità sul caso Harry Quebert

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L'ho finito in questo preciso istante.

La verità sul caso Harry Quebert è questo:

775 pagine incolla-terga alla sedia, al letto, al sedile dell'autobus, del treno e sì, diciamolo, del sacro trono ceramico!

In un'intervista l'autore Joël Dicker ha affermato che con questo libro mirava a ottenere sui suoi lettori lo stesso effetto che ha avuto su di lui la serie TV Homeland:

"Vedi una puntata, poi un’altra, poi cominci a fare delle stupidaggini tipo vederne quattro di fila di notte così il giorno dopo non riesci a lavorare... La mia ambizione era ottenere lo stesso risultato con un libro". 

Riporto un brevissimo accenno di trama senza spoilerare niente, direttamente da Wikipedia. 

New York, primavera 2008. Il giovane scrittore di successo Marcus Goldman sta vivendo un periodo di crisi a causa del cosiddetto "blocco dello scrittore". Non riuscendo a buttar giù neanche una riga e rischiando di finire sul lastrico, contatta il suo vecchio professore e maestro di vita, il famoso scrittore Harry Quebert, in cerca di conforto e consigli. Questi lo invita a passare un periodo nella sua tranquilla casa di Aurora, nel New Hampshire, per ritrovare la concentrazione e la calma. Marcus accetta con entusiasmo ma qualcosa d'imprevisto sconvolge la vita d'entrambi: Harry viene infatti accusato d'aver ucciso, nel lontano 1975, la giovane Nola Kellergan, il cui cadavere viene accidentalmente rinvenuto nel giardino della villa dello scrittore.

Convinto dell’innocenza dell'amico, Marcus comincia una sua personale indagine cercando, dopo oltre trent’anni, di dare risposta alla domanda: "Chi ha ucciso Nola Kellergan?"

Devo dire che non me lo aspettavo così intrigante ed ero terrorizzata dall'eventualità di un finale pessimo. Dopo 775 pagine chiunque lo sarebbe. Mi raccomando non andate su Wikipedia in autonomia se non avete letto il libro perché questa breve trama che ho riportato qua, termina con il finale che io invece ho accuratamente tagliato. Bisognerebbe dire a chi ha scritto quella pagina che non è necessario spoilerare un bel niente, per descrivere un libro.

Non credo di aver mai letto 775 pagine così in fretta in tutta la mia vita. Dicker ha la bellezza di dieci anni meno di me e ha già scritto un capolavoro alto come l'elenco del telefono di Città del Messico (e lo dico a ragion veduta visto che ci sono stata e ho avuto modo di sfogliarne uno).

Si tratta di un libro che non si legge, ma si beve come la birra ghiacciata in una sera d'estate. Una dietro l'altra.

Mi è piaciuto moltissimo il fatto che racconti la stessa scena, dai punti di vista dei diversi personaggi. Riesce a far rivivere una scena più volte senza dare mai l'idea che si ripeta fino alla noia.

La numerazione dei capitoli è invertita e si parte dal 31, fino ad arrivare al capitolo 1. Scoprirete da soli il perché.

Il libro vive sul presente di Marcus Goldman, ma soprattutto sui tantissimi flashback, oserei dire centinaia, che corrono indietro nel tempo fino al 1975, dipanando una trama che fino all'ultimo non è affatto come sembra. Le ultime duecento pagine sono pregne di colpi di scena, uno dietro l'altro. E' un susseguirsi di sterzate violente, virate improvvise e particolari dapprima apparentemente di contorno, che ritornano acquisendo fondamentale importanza. L'autore è veramente riuscito nel suo intento:

Leggi una pagina, poi un'altra, poi cominci a fare stupidaggini tipo leggerne altre cento di fila di notte così il giorno dopo non riesci a lavorare...Beh, che dire... c'è riuscito alla perfezione. Potrà sembrarvi leggermente lento a tratti, ma non riuscirete comunque a scollarvi dalla sedia. Garantito!


"Marcus, sai qual è l'unico modo per misurare quanto ami una persona?"

"No."


"Perderla."

giovedì 6 febbraio 2014

#Come un epigramma

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Dedico questo post a un regalo inaspettato che ho ricevuto qualche giorno fa da parte dei miei  suoceri per festeggiare il libro di poesie appena uscito. Devo dire che non me lo aspettavo,  sono stati davvero carini. Ovviamente l'idea è stata di mia suocera!

Mi verrebbe da dire che è una collana, ma sarebbe riduttivo. 
In realtà è un'opera d'arte unica al mondo.
E' piena di fascino ed energia, ve lo assicuro.

Mi hanno colpito tanti dettagli di quest'oggetto... uno riguarda il fatto che si tratta di qualcosa di veramente antico. 
Seconda cosa: il materiale con cui è fatta questa collana è davvero speciale.
Terza: pare che sia un oggetto "adatto" a chi scrive... mi ha accennato alle energie delle pietre e del materiale che dovrebbero essere utili a chi mette su carta le emozioni, come me.

Come molti di voi sapranno non credo granché in queste cose, o meglio: credo nelle energie degli oggetti, ma non penso che possano essere utili a chi scrive, legge, suona, dipinge, ecc...
Gli oggetti possono essere intrisi di energia, e a questo posso crederci, ma non penso proprio abbiano delle specifiche utilità. 
Il disco di Giada in particolare si surriscalda col calore del mio corpo e diventa caldissimo. E' una sensazione meravigliosa toccarlo con le mani fredde. Mi domando se oltre al calore, questa collana assorba anche le negatività scaricandole magari una volta poggiata sul comodino prima di dormire. Al mattino è ghiacciata, ovviamente. Mi piace pensare che di notte si scarichi, per poi ricaricarsi di giorno. So che è un'assurdità, ma ho deciso di crederlo possibile :)
In ogni modo, questa collana è energeticamente potente, la cosa è innegabile.
L'artista che ha creato questa meraviglia è la famosa Imelde Corelli Grappadelli.

Scrivono di lei in rete:

I gioielli di Imelde sono pezzi unici o a tiratura limitata, e sono quasi sempre realizzati “su misura” per la persona, donna e uomo, che li deve indossare, studiati per aderire al suo modo di essere a alla sua intima personalità.

Sul gancino d'argento a forma di pesciolino, mia suocera ha voluto farle incidere la parola "Impronte". Il titolo del libro di poesie.
L'opera (che l'artista chiama installazione e non certo collana) si chiama #Come un epigramma.

Allegato alla collana, scritta a mano direttamente dall'artista, c'è una lettera che elenca i materiali di cui è fatta... 

Eccoli qua:

- Antiche murrine africane di pasta vetro color marrone decorate a dente di leone.
- Murrine senegalesi di pasta vitrea verde con decoro floreale.
- Perla coltivata Akoya, provenienza mar del Giappone.
- Perle di conchiglie fossili tibetane.
- Perle di conchiglie africane.
- Giada cinese antica intagliata col motivo del pesce (carpa) e del melograno beneauguranti. Disco Bi. 
- Pesciolino d'argento 925, provenienza Parigi.
Numerazione pezzo 1/1


Non sto a spiegarvi il significato che per me ha avuto questo regalo, un po' perché è facilmente intuibile e un po' perché il tutto è legato ad una serie di coincidenze piuttosto bizzarre, particolari e intime che mi hanno dato da pensare. 

Chissà se quel filo rosso quantistico che lega TUTTO, esiste davvero... comincio a credere di sì.

Voglio ringraziare pubblicamente la mia adorata suocera (e ovviamente anche il suocero che ha certamente collaborato) perché questo dono mi ha fatto un immenso piacere. 
Come ho scritto nella dedica del libro che vi ho regalato: Siete la mia famiglia. 

Vi amo immensamente.

mercoledì 5 febbraio 2014

Colorado Kid - Stephen King

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Ho appena terminato di leggere per la seconda volta Colorado Kid, del grande mostro sacro Stephen King.
Lo lessi la prima volta quando uscì nel 2005, ma l'ho riletto in questi giorni perché non ricordavo assolutamente nulla e visto che sto seguendo la bellissima serie TV, Haven, basata appunto sul racconto di King, ero curiosa di vedere fino a che punto la serie avesse preso spunto.
Sono felice di anticiparvi che prendere spunto, sono due parole grosse. La serie non ha NIENTE a che fare con il libro. E quando dico niente, intendo niente.

Ecco un pelino di trama DEL LIBRO: 

Appena diplomata alla scuola di giornalismo, la ventiduenne Stephanie McCann sta facendo uno stage presso il quotidiano di una minuscola isoletta del Maine, occupandosi di picnic parrocchiali e sparizioni di gatti. Dai due anziani proprietari del giornale, Vince Teague e Dave Bowie, viene a conoscenza di un misterioso episodio del passato, che aveva visto coinvolti una coppia di tenaci reporter (i proprietari del giornale) e un cadavere chiamato Colorado Kid, forse vittima di un misterioso omicidio, senza movente, con tempi impossibili e indizi apparentemente assurdi. Stephanie inizia a indagare e si trova sempre più coinvolta in una vicenda tutt'altro che conclusa.

Premetto una cosa, prima che mi riempiate di botte e insulti: Io AMO King. 
Lo ripeto, non si sa mai: IO LO AMO.
Bene, dopo questa doverosa premessa, passo a dirvi cosa penso di Colorado Kid.
Uno dei peggiori libri che io abbia mai letto in tutta la mia vita.
Ok, ok. Mi calmo. Facciamo così: ammetto che lo stile narrativo è a dir poco impeccabile. Scorrevole, pulito e tecnicamente ben orchestrato, considerando che una pagina tira l'altra e Colorado Kid lo si legge agevolmente in un pomeriggio. Insomma è il solito, bravissimo, King. Il Mostro Sacro.
MA
C'è un MA grosso come una casa, anzi, come un'isola del Maine. E' un libro assolutamente nonsense. Non ha un capo, anzi ce l'ha ma è piuttosto calvo (caratterizzazione e introduzione dei personaggi che rasenta lo zero assoluto) e soprattutto non ha una coda.


ATTENZIONE, DA QUA IN POI, SPOILER!

Chiaramente non posso parlarne molto senza spoilerare un finale che non c'è. OPS. L'ho fatto. Scusate.
Non fatevi ingannare da questa frase letta pochi istanti fa:
"Stephanie inizia a indagare e si trova sempre più coinvolta in una vicenda tutt'altro che conclusa".
Steffi, come la chiamano i due giornalisti incartapecoriti dell'Islander, non inizia affatto a indagare. La signorina se ne sta bellamente seduta per tutta la durata del libro, ad ascoltare la storia del ritrovamento di Colorado Kid e basta. Sottolineo e basta.
Il libro è un susseguirsi di racconti, ipotesi, teorie, punti di vista, pochissime prove e moltissima immaginazione. Insomma tutto fumo e niente arrosto.

In copertina si legge: Sarà lei a risolvere l'enigma di quella morte misteriosa?
No, tranquilli. Non sarà lei, né i due vecchietti e neppure King, se è per questo.

Il NY Times scrive, sul retro di copertina: Eccellente, di estrema finezza psicologica... King è così noto come maestro della suspense che spesso ci si scorda del suo grande talento per il quotidiano.

Allora: E' vero, come ho detto prima, che Colorado Kid sia ben scritto, nessuno lo mette in dubbio, ma che sia di un'estrema finezza psicologica, ecco questo potevano risparmiarselo. Non c'è niente di fine e niente di psicologico.

King, che si è ben accorto della sua malefatta, nella postfazione del libro scrive un laconico: A seconda che questo libro vi sia piaciuto o no (credo che per molti lettori non ci sia via di mezzo in questo caso e mi sta bene così) [...] Qui il mistero è il mio argomento e mi rendo conto che molti lettori si sentiranno traditi, anche non poco irritati, per il fatto che non ho fornito una soluzione a quello che ho raccontato. 

No, non è una giustificazione, caro il mio Re. Se questo libro lo avessi scritto io, non sarei finita nemmeno su una bancarella, figuriamoci in una libreria. E ci tengo a precisare che non è la totale mancanza di un finale o di una spiegazione al caso di Colorado Kid, che mi fa arrabbiare, ma la completa assenza di carisma dei personaggi, della loro caratterizzazione, del buon senso sui ragionamenti logici. Tutto questo mi fa arrabbiare e visto che King non è minimamente l'ultimo dei cretini, mi sorge un sospetto. O il Re ha intenzionalmente scritto un pessimo libro per testare la fedeltà (coloro a cui è piaciuto) e l'intelligenza dei suoi sudditi (quelli che si sono irritati), come un esperimento, oppure essendo il suo primo Mistery, ha toppato clamorosamente, dichiarando al mondo il suo talento per l'horror e basta. Del resto anche la saga Fantasy della Torre Nera, non è che fosse un capolavoro eguagliabile al Signore degli Anelli.



Per fortuna la serie TV, intitolata Haven, è stata inventata di sana pianta. Gli autori hanno recuperato giusto 4 o 5 cose in croce, come i due giornalisti (che nella serie sono fratelli e nel libro no), il cognome del sergente di polizia, il nome del ristorante (Gray Gull) e il nome del misterioso morto: Colorado Kid, che avrà, rispetto al libro, una vita e una morte completamente diverse. Nemmeno la location è la stessa.
La serie, a mio parere, è davvero ben fatta - se tralasciamo qualche effetto speciale un po' così -  e merita di essere guardata (soprattutto se vi sono piaciuti X-Files e Twin Peaks), al contrario del libro, utile caso mai a livellare un comò che dondola.

Ora capisco perché dopo la prima lettura nel 2005, ho dimenticato tutto.

martedì 4 febbraio 2014

Intervista per FSNews Radio

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Come vi avevo anticipato, eccovi la trascrizione della mia intervista in radio. Non posterò l'audio semplicemente perché mi imbarazza tremendamente, quindi accontentatevi di una rapida lettura, tenendo presente che è una trascrizione di un discorso fatto a voce.




Eccoci su FSNews Radio, siamo in collegamento telefonico con la prima vincitrice del concorso letterario delle Ferrovie dello Stato Italiane, Racconti in Linea, è con noi Serena. Benvenuta su FS News Radio Serena e grazie per essere con noi.

Grazie mille a voi.

Allora Serena, innanzitutto complimenti per questa vittoria. Il tuo racconto si chiama “Una Freccia nel cuore”, ci vuoi raccontare un po’ di cosa parla quello che hai scritto?

E’ una dedica nei confronti di una ragazza che ho conosciuto da poco, da circa un annetto, che è diventata in breve tempo la sorella che non ho mai avuto e quindi, grazie al treno, ho potuto conoscerla e le ho dedicato con tantissimo affetto questo racconto. Parla totalmente di lei.

Senti, tu sei abituata a scrivere? Da dove nasce questa tua passione?

Beh, io scrivo da un sacco di tempo. Sono molto pigra e quindi ho partecipato a pochissimi concorsi però ho una passione per la scrittura da tanti anni. Ho cumuli di carta prima, e di files su pc adesso, di cose scritte da me ormai da tantissimo tempo.

E invece Serena quali sono gli scrittori e gli autori che ti hanno accompagnato nella tua vita di scrittrice?

Beh, sono parecchi. Devo dire che uno dei miei generi preferiti è l’horror/noir, Stephen King soprattutto, anche se non si direbbe dal racconto che ho scritto per questo concorso e anche Philip K. Dick, perché il genere cyberpunk mi è sempre piaciuto moltissimo, poi è chiaro che ne ho tanti altri, come Shakespeare; sono molto particolare come gusti e me ne piacciono tanti tipi, tanti generi.

Anche grandi classici quindi.

Si, si. Anche grandi classici.

Cosa pensi di questa iniziativa del gruppo FS e del concorso di Racconti in Linea?

E’ un’idea molto carina, soprattutto per chi ama viaggiare. Io sono una grande appassionata di viaggi, non solo di scrittura, amo anche i grandi mezzi soprattutto aerei e treni, quindi il pensiero di poter scrivere qualcosa che si basa sul viaggio e che parla anche del mezzo di trasporto secondo me è un’idea molto carina.

Quindi sei un’affezionata delle Ferrovie dello Stato e dei treni, se così possiamo dire?

Si. Appena posso viaggio parecchio, insieme a mio marito mi piace fare anche dei fine settimana via, qualche gita fuori porta, prendere un treno, anche senza andare troppo lontano. E’ rilassante.  
    
Benissimo, Serena noi ti ringraziamo per essere stata con noi e ti facciamo un grande in bocca al lupo.

Ma di niente, grazie mille a voi per l’opportunità.

lunedì 3 febbraio 2014

Una freccia nel cuore

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Alcuni post del mio vecchio blog saranno ovviamente recuperati, come qualche scritto personale e l'etichetta Helsinki Kiitos. Sarebbe un peccato se venissero persi. Oggi riporto il racconto che mi ha fatto vincere il concorso FS e nel prossimo post, riporterò la breve intervista radiofonica che mi venne fatta all'epoca.

Ecco a voi... 


E’ la Freccia Rossa Milano – Bologna che ti ha portato da me.
La prima volta che ti ho vista.
Erano mesi che confessavamo tramite mail i nostri errori, le nostre gioie, i traguardi raggiunti nella vita e le cose preziose perse lungo il cammino. Mille confessioni su sogni e paure.
Sapevo che aspetto avevi, avevo visto il tuo viso in alcune fotografie e tu il mio. Sapevo che siamo così simili e nello stesso tempo così diverse.
Tu ami Trieste, io amo Helsinki, un amore diverso, incondizionato, proveniente da chissà quale recondito angolo del nostro cuore. Un amore per due città viste solo qualche volta. Due città che apparentemente niente hanno di noi. Le nostre vite così diverse, eppure così identiche nel modo di scegliere, di soffrire, di vedere al di là di ogni apparenza ingannevole.
Mi chiedo ancora da dove sia scaturita la totale fiducia in te, nel nostro rapporto. Mi chiedo come sia possibile che ti senta così forte dentro di me, quando è solo un anno che ci conosciamo. E’ difficile, quasi impossibile raccontare agli altri, quelli che mi vedono ogni giorno, ciò che sei per me. Non ci servono parole per comunicare e nemmeno la distanza, seppur poca, può tenerci lontane.
Il treno ha fatto sì che potessi portarti al mare d’inverno, a passeggiare sulla sabbia e a raccogliere conchiglie. Ricordo il tuo sorriso felice, mentre guardavi fuori dal finestrino con il Trudy che ti avevo regalato fra le mani, mentre lo smog delle grandi città svaniva alle nostre spalle.
Alcuni parlano di anime gemelle, di legami karmici, di totale empatia. Io non so quale sia il suo nome, ma è grazie a lei che tu ora fai parte della mia vita.
Il treno ci ha portato a un passo l’una dall’altra, ha fatto sì che potessimo guardarci negli occhi, potessimo abbracciarci.
Il treno ti ha permesso di mostrarmi Trieste. Dove risiede la tua anima, seduta accanto a quella di Joyce. Ci ha fatto sedere sul Molo Audace ogni mattina, io e te.
Io, te e il mare.
Io, te e Trieste.
Il cielo sfacciatamente rosa, la pioggia, la colazione insieme, il profumo del caffè appena macinato in Piazza Unità d’Italia, le stradine strette e antiche di Cavana, quel molo che altro nome non potrebbe avere se non Audace, tanto audace da gettarsi a capofitto al centro del golfo. 
Laggiù, fin là. In mezzo all’acqua, in mezzo al nulla.
Il treno mi ha permesso di essere presente alla tua Tesi da 110 e lode. Mi ha permesso di commuovermi come mai era successo prima. Mi ha permesso di essere fiera di te. Di ascoltare parole d’amore uscire dalla tua bocca e dal tuo vestitino rosa antico, parole per la Trieste del 1900, per la Trieste che è nel tuo cuore, dietro i tuoi occhi, attorcigliata alle corde della tua anima, come l’elogio di un’immagine sfocata.
La Trieste che è il nessun luogo, che c’è ma al contempo non c’è, come quella sedia vuota proprio di fronte a me.
Il treno mi ha permesso di vedere gli occhi lucidi di tua madre, la stretta di mano accademica di tuo padre. Tutta quella pioggia, quel giorno piangeva anche il cielo.
Il treno mi ha permesso di  vederti arrancare su tacchi Sex and The City troppo alti per te, grazie a lui ho potuto stringerti stretta la mano mentre piangevi col cuore accartocciato a causa di quella sedia vuota, mentre il trucco ti scivolava sgraziato lungo le guance.
Anche quella coroncina d’alloro non ne voleva sapere di starti sulla testa, ricordi? Una corona così deliziosa poggiata sui tuoi capelli da mani sbagliate.
Il treno mi permette di starti vicino, se qualcosa dovesse andare storto, se tu avessi bisogno di me ora, di notte, domani, quando ti manca un mio abbraccio.
Quando si ha una cosa così preziosa, la paura di perderla è enorme. Spezza il fiato, graffia dentro, lo so.
Vorrei riportarti ad Helsinki, dove risiede la mia di anima, avrei voglia di sedermi con te su quella panchina a guardare il porto in silenzio, contemplando il Baltico e basta. Con un sacchetto di piselli dolci in mano. Uno per me, uno per te, uno per il gabbiano Jonathan.
Tanto non ci sarebbe bisogno di dire niente.
“Perché sì, è vero, è sacrosanto: non c’è assolutamente alcun bisogno di parlare.
Lo so che non ti perderò mai, lo so. Sono solo momenti, frammenti di incertezza, acqua alla gola, dieci rose nere in braccio. Sono solo momenti ma poi, come sai, passa, poi passa subito, perché lo so che tu sei parte di me.
Lo so dal 16 ottobre o forse anche da un’altra Vita.”
Da quel 16 ottobre il tuo petto si è spalancato di fronte a me, mi hai mostrato il tuo cuore, nudo e crudo, con ogni sfumatura possibile, ogni deliziosa imperfezione, ogni meraviglia, ogni risata sincera, ogni orrore, incubo, terribile e straziante dolore.
Grazie a quel treno di un rosso sfolgorante sei entrata come una freccia nella mia vita, sorellina, e io ti voglio bene per ciò che sei.
Per questo non mi perderai mai. 

domenica 2 febbraio 2014

Il mare che vorrei

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Il concorso "Natale che storia" è terminato il 30 Gennaio 2014 e il mio racconto è in 41esima posizione su 266. Lo immaginavo, considerando il metodo con cui vengono scelti i vincitori e la pochissima pubblicità che mi sono fatta, ma non importa. Il bello è partecipare, l'eventuale vittoria sarebbe stata solo grasso che cola.
Ora che il concorso è terminato, mi sembra giusto, per amor di completezza, riportare qua il racconto in questione. 

Il mare che vorrei  

Aino si aggirava sola per l’Esplanade con passo lento e cadenzato. Rifletteva sulle facciate chiare e decorate dei palazzi e il cielo limpido sopra Helsinki, rifletteva come fosse la prima volta.

Osservava, come fosse la prima volta.


Le vetrine brillavano di rosso e argento, di Natale e inverno.
Era un dicembre strano, quello. Il porto non si era ghiacciato a dovere, i battelli navigavano adagio e sbuffavano calde colonne di vapore facendo ondeggiare l’aria e scaldando il becco dei gabbiani che volteggiavano alla ricerca di un po’ di tepore.
Dalla porta a vetri dell’antica pasticceria usciva un debole profumo di zucchero, cioccolato e vaniglia, caffè e cannella. Aino continuava a passeggiare con la calma e la grazia di una ballerina su un carillon, delicata sul marciapiede innevato, i suoi passi silenziosi e fluidi. Il ghiaino, con cui il comune cospargeva le strade della città per combattere il ghiaccio, le impediva di scivolare.
Un leggero brusìo di sottofondo le faceva compagnia. C’era poca gente in giro, alcuni alla ricerca di un regalo di Natale last minute, altri a caccia di prelibatezze con cui riempire la tavola per il pranzo del giorno successivo. 

Sembrava una capocchia di spillo, vista dall’alto. Un puntino nero in mezzo a bianchi palazzi Neo Rinascimentali e tutta quella neve che riempiva i tetti. Mani sprofondate nelle tasche del cappotto antracite, paraorecchie di pelo rigorosamente finto e sciarpa nepalese, Aino alitava sbuffi bianchi a ogni passo.
Quel giorno erano i dettagli a rapirla, non come sempre la visione d’insieme.


Un bambino usciva da Hesburger con un pacchetto di patatine in mano e un sorriso sfolgorante stampato su quel faccino da stronzetto. Occhi azzurri, naso rosso dal freddo.


O dalle lacrime? Deve aver pestato parecchio quei piccoli piedini, per ottenere le patatine, pensò.


Per un bambino è facile. Basta battere i pugni a terra, versare qualche lacrima posticcia, lasciarsi uscire una candela dal naso ed ecco che la magia è fatta.


Per me non è così semplice.


Più avanti una ragazza aspettava il tram numero 4. A giudicare da come saltellava da un piede all’altro, doveva avere molto freddo. Aino si chiese se il candore sulla punta delle sue Converse fosse la gomma tipica di quel modello, oppure neve. Le gettò uno sguardo di sfuggita e sorrise alla vista delle calze a righe colorate che andavano a scomparire sotto una stretta gonna di lana nera. Osservò la sciarpa lunghissima avvolta molte volte attorno al suo collo sottile e notò che le larghe righe colorate erano identiche a quelle che le fasciavano le gambe.


Che tipa simpatica dev’essere, è tutta colorata. Va in giro vestita come le piace, se ne frega del giudizio della gente, pensòLei dovrebbe essere fuori luogo in tutto questo bianco, perché invece non lo è?


Il 4 giunse in tempo a distrarla. Una signora grassoccia, avvolta in un piumino carta da zucchero scese a fatica i tre alti gradini del tram e per poco non capitombolò a terra. Aino ebbe un sussulto, pronta a soccorrerla, ma la ragazza arcobaleno la precedette e con agile mossa sorresse l’anziana donna che le donò un sincero sorriso di ringraziamento.


Che bel sorriso, pensò.
Dovremmo essere tutti in grado di sorridere così. Chissà come si fa?


Un brivido di freddo l’attraversò come una scossa elettrica. Aino si strinse nelle spalle e proseguì il cammino. La Piazza del Senato a quell’ora aveva qualcosa di melanconico. La statua dello Zar era completamente ricoperta di neve; lampioni, panchine, la gradinata che porta alla cattedrale, tutto bianco. S’intravedeva il turchese delle cupole, sotto la coltre, belle come sempre, stellate d’oro, come un mattino d’alba in una giornata estiva. Gli schiamazzi di due bambini attirarono la sua attenzione. Nei loro cappottini giocavano tirandosi palle di neve al centro della piazza, alla base della gradinata.


“Aino fa attenzione a non scivolare, per favore! Te lo ripeto per l’ultima volta!”


Un ragazzo gridò dal parcheggio dei Taxi in direzione dei bambini. Aino sorrise ancora, questa volta divertita da quella bambina scalmanata che portava il suo stesso nome. Si fermò ai piedi dello Zar Alessandro II e sfilò dalla tasca un pacchetto di Marlboro al mentolo. Con mani già ghiacciate ne portò una alle labbra e l’accese col suo Zippo anti vento.
Voleva vedere bene quella bambina.
La piccola peste, coperta fino alla punta del naso da un cappottino coloratissimo, correva in cerchio come una matta evitando le palle di neve del suo amico o forse fratellino e rideva. Rideva fortissimo. Aino si accorse che in quel momento, in quel preciso istante, nella Piazza c’erano solo loro quattro; lei, i due bambini e il ragazzo. Non passava nessuno, nemmeno un’auto, un tram, un taxi, niente. C’era solo il suono della neve sotto i loro piedi, la risata allegra della bambina e le grida di qualche gabbiano arrabbiato a causa del freddo. Fu un momento unico, memorabile, uno di quei momenti che vorresti non passassero mai; per un attimo s’illuse di far parte di quella famiglia, quand’ecco che la piccola canaglia ruzzolò a terra proprio di faccia.
Quello che Aino pensò essere suo padre, a passo svelto, raggiunse la figlia che intanto piangeva sommessamente. Dignitosamente.


“Aino! Ti avevo detto di fare attenzione! Non mi ascolti mai!”


La bambina alzò gli occhioni lucidi e guardò dritto in faccia il papà. Il suo sguardo era pieno di vergogna. Lui le tolse la neve dal naso e le sistemò la cuffia di lana sulla testa, il buffo pon-pon sobbalzò allegro, ignaro che sotto di lui una bambina stava trattenendo un pianto disperato. Non per il dolore, non si era fatta niente, ma per aver deluso suo padre.
L’Aino adulta inspirò una profonda boccata di fumo per esorcizzare i ricordi, ricacciò indietro una lacrima e continuò a camminare.


Arrivata al porto, istintivamente raggiunse la sua panchina preferita e trovandola libera si sedette a osservare il mare. Le mani sempre in tasca, lo sguardo gettato fin laggiù. Fino in fondo, fino a quelle onde che chissà dove stanno andando.


I pensieri in un cesto di vimini appeso ad una mongolfiera dell’Helsinki Sanomat.


Ci sono tante cose. Ci sono tante cose nella vita. Ci sono gli amori. E ci sono gli addii. Ci sono i sorrisi, i fiocchi di neve, le patatine, i papà, le lacrime, i tram, le calze colorate, l’aurora. Ci sono le navi, i gabbiani, le boe, le isole, i pasticcini, gli alberi di Natale e le bancarelle del mercato.


E poi c’è Lui.


Il Mare; questo mare che ribolle, che vortica dentro l’Anima e non mi lascerà mai più.

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