giovedì 30 agosto 2018

I Figli Del Capitano Grant - Jules Verne

30 agosto 0 Comments

Vediamo. Da dove comincio a scrivere questa recensione tanto difficile? Facciamo così, partiamo dai fatti e poi passiamo alle impressioni. 


I fatti sono che I figli del capitano Grant è il primo libro della saga che vanta come "protagonista" il misterioso e affascinante Capitano Nemo. Le virgolette le ho messe perché in realtà, del Capitano Nemo, in questo libro non c'è nemmeno l'ombra :)

Si tratta di un romanzo di avventura pubblicato nel 1867 dal mostro sacro della scrittura francese Jules Verne - che come sapete io amo moltissimo - e costituisce il primo capitolo di una trilogia che prosegue con Ventimila leghe sotto i mari e si conclude con L'isola misteriosa. È diviso in tre parti: la prima ambientata in Patagonia, la seconda in Australia e la terza in Nuova Zelanda.
Il romanzo fu pubblicato dapprima a puntate sulla rivista letteraria francese Magasin d'Éducation et de Récréation; poi in un volume triplo.

INCIPIT SENZA SPOILER

Nel luglio 1864, durante una gita di Lord e Lady Glenarvan a bordo del loro yacht Duncan, viene catturato al largo di Glasgow uno squalo nel cui stomaco è rinvenuta una bottiglia con all'interno alcuni fogli scritti. Dall'esame delle poche parole leggibili si comprende che la bottiglia era utilizzata dal capitano scozzese Grant, comandante della nave Britannia, per veicolare una richiesta di aiuto dopo il naufragio della nave. Nel messaggio è indicata la latitudine (37° 11') del luogo in cui è naufragato il Britannia, ma l'indicazione della longitudine è stata cancellata dall'acqua di mare penetrata nella bottiglia.
Lord Glenarvan decide di partire alla ricerca del capitano Grant col suo yacht Duncan, guidato dal giovane comandante John Mangles. Fanno parte della spedizione lady Helena Glenarvan, il maggiore Mac Nabbs e i due figli del capitano Grant: la sedicenne Mary e il dodicenne Robert. Si unirà a costoro il cartografo francese Jaques Paganel, imbarcatosi distrattamente sul Duncan anziché su una nave diretta in India.



— Mi pare di vederlo ancora! — soggiunse il fanciullo come se parlasse a se stesso. — Quand'ero piccino, mi faceva addormentare sulle sue ginocchia, e mormorava sempre un vecchio ritornello scozzese che canta i laghi delle nostre terre. Mi torna talvolta in mente il motivo, ma confusamente, e anche a Mary accade lo stesso. Ah, milord, come lo amavamo! Ecco, io credo che bisogna essere piccoli per amar il proprio babbo!

— E grandi per venerarlo, figlio mio — rispose Glenarvan, commosso dalle parole sfuggite a quel giovane cuore.



COSA NE PENSO


Dunque. La prima cosa che ho pensato quando ho iniziato il libro - se vi ricordate molti mesi fa - è stato: "Wow, parte in quarta, mi piace molto! Come ogni libro letto fino ad ora di Jules Verne!"


Nel caso vi siate persi le mie altre recensioni, ecco qua Ventimila leghe sotto i mari, L'Isola Misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Viaggio al centro della Terra e Michele Strogoff


Come dicevo, mi è piaciuto lo stile narrativo di Verne, molto romantico e delicato, sempre ricercatissimo, ma nonostante questo piuttosto scorrevole.  
La prima cosa che ho pensato, invece, quando ho letto l'ultima pagina, è stata: "Grazie Signore!!! E' finito!!!" E un senso di spossatezza, di enorme fatica, mi è calato addosso schiacciandomi sul divano. 
Sì, si tratta di un libro davvero faticoso. Come posso spiegarmi meglio? Ecco, userò alcune parole tratte dal Blog "La Casa di Roberto", scovato per caso in rete qualche giorno fa. 

"Non so se alla fine io sia più allibito per la protervia con cui Verne ha cucito insieme, con un pretesto esile, almeno tre romanzi diversi, o ammirato dal consumato mestiere con cui lo ha fatto.

Les enfantas du capitaine Grant è un catalogo seriale di avventure varie, prolungate, allungate, ripetute, legate fra loro come le novelle del Decamerone da un pretesto narrativo esile che fa da cornice (il viaggio per ritrovare il Capitano) con un cast di personaggi ricorrenti il cui carattere è fissato inizalmente una volta per tutte e ai quali non è concessa, peraltro, alcuna forma di crescita."

Ecco fatto. In pochissime righe, Roberto ha espresso perfettamente il mio pensiero. I figli del capitano Grant è esattamente questo: il libro parte in quarta, poi prosegue in modo metodico, cadenzato, percorrendo miglia e miglia fino ad arrivare in Patagonia, luogo dove accadono svariati episodi che più o meno hanno a che fare con la trama principale, ovvero la ricerca del Capitano Grant che, come avrete capito, si rivelerà infruttuosa. 


Intorno alle 200 pagine, i nostri eroi capiscono che il percorso fatto fino a lì è stato vano e così, tornando a interpretare nuovamente il biglietto ritrovato nella bottiglia, s'imbarcano per una nuova avventura in direzione Australia. Come nel caso precedente, il libro prosegue il viaggio di miglia e miglia (a piedi e in carovana) per altre 200 pagine, dove si susseguono svariati avvenimenti che non sempre hanno uno stretto legame con la trama principale. 

Il ciclo a questo punto ricomincia e tu, lettore, sei già molto provato da questo viaggio interminabile fra foreste, distese sterminate, laghi, fiumi, città, montagne e molto, molto altro. Intorno a pagina 400 (il libro è di 600 pagine circa), di nuovo, i nostro eroi cambiano meta, dirigendosi verso la pericolosa Nuova Zelanda. E' a questo punto che il lettore inizia a pregare che il benedetto Capitano Grant faccia finalmente capolino fra le pagine del libro. 

Le descrizioni dei luoghi, dei paesaggi, della flora e della fauna, sono poco "narrate" e sembrano piuttosto stralci tratti da libri di geografia politica o scienze naturali. Persino in punti caldi della trama, Verne si ferma d'un tratto per spiegare con fare accademico la storia dell'Australia, il periodo fertile della febbre dell'oro, l'economia del paese o la classificazione della fauna utilizzando persino i nomi tassonomici degli animali o delle piante, per non parlare dei dati statistici e delle date di avvenimenti storici salienti. Istruttivo, per carità, ma il romanzo ne perde in bellezza, in profondità e in poesia. In modo cadenzato, sembra quasi di tornare a scuola e di star leggendo un passo dal vecchio libro di geografia o di scienze.

In ogni libro di Verne - quanto meno in quelli letti fino ad ora- , vi è di solito un personaggio, in questo caso il geografo Paganel, esperto di un ramo della scienza utile allo svolgimento del romanzo. 
In Ventimila leghe sotto i mari, c'era il Professor Aronnax, celebre naturalista del Museo di Storia Naturale di Parigi famoso per aver pubblicato un'opera sulla vita sottomarina (ma guarda un po'), nell'Isola Misteriosa c'erano Cyrus Smith, ingegnere e Harbert Brown, appassionato di scienze naturali, mentre in Viaggio al centro della Terra c'era Lidenbrock, professore rinomato di mineralogia. 
Ho sempre pensato che questi personaggi "esperti", altro non fossero che l'alter ego dello stesso scrittore, appassionato infatti come loro, a una vasta gamma di materie scientifiche. Questo espediente permetteva a Verne di trasformare i suoi libri in testi quasi accademici, dove poteva sentirsi libero di coinvolgere il lettore nello studio di scienze naturalistiche, geologia, fisica, astronomia, ingegneria e navigazione. Personalmente, soprattutto ora, dopo la lettura di questo lungo romanzo, penso a Verne come a un moderno Alberto Angela, talmente appassionato di scienze e curioso su qualunque argomento, da voler diventare divulgatore attraverso i suoi libri. 
Anzi, vi dirò: è quasi come se il romanzo stesso fosse l'espediente. Come se venisse in secondo piano rispetto all'amore per la divulgazione scientifica.

Come ho scritto nella mia recensione de L'isola misteriosa: 

"Il libro, scritto in uno stile impeccabile, è colmo di descrizioni pratiche e scientifiche, specialmente su ciò che concerne la sopravvivenza, la costruzione di un campo base, la creazione di armi e l'approvvigionamento di viveri. E' il libro perfetto da portarsi sempre dietro quando si viaggia, perché nel caso di naufragio et similia, sarà molto più utile del Manuale delle Giovani Marmotte, ve lo posso assicurare. Dopo averlo letto, anche voi sarete in grado di sopravvivere mesi in un luogo sperduto." 

Le descrizioni delle manovre effettuate dai marinai sul Duncan o su altre imbarcazioni, sono estremamente descrittive e puntigliose, con lunghi brani dove non si parla d'altro che di "cazzare la randa", alberi di "trinchetto", di come ripiegare il "terzaruolo", fissare la "scotta" o di come sistemare il "parrocchetto".
Capirete anche voi che senza una conoscenza almeno basilare delle nozioni di navigazione, un lettore possa rischiare di addormentarsi dopo il terzo "picco" o la quarta "ralinga".   
Questo difetto, se così possiamo chiamarlo, è presente in tutti i libri di Verne, ma ne I figli del capitano Grant si accusa molto di più che in tutti gli altri suoi romanzi. 
Va bene essere descrittivi, va bene anche l'intento istruttivo che un libro può e deve avere, ma eccedere in questo non fa altro che annoiare il lettore e far perdere mordente al leitmotive principale del romanzo. 

Come sottolinea Roberto, il "cast" del romanzo è ben caratterizzato (meno le parti femminili, a dire il vero), ma dall'inizio del viaggio alla fine, durante tutti quei mesi di ricerca, nessuno di loro matura in modo vistoso, nemmeno Robert, che viene già presentato al lettore come un piccolo e coraggioso ometto. 

Abbiamo usato la parola cast perché I figli del capitano Grant somiglia di più a una serie TV, che a un libro. Il format usato da Verne è quello di Lost - lo so, caso mai è il contrario, ma capitemi -. Si tratta di brevi avventure, brevi racconti che vanno a legarsi come una collana di perle dalla prima all'ultima pagina. Non c'è nemmeno un vero protagonista principale, ma tutti a loro modo portano avanti la storia, esattamente come Jack, Kate, Charlie, Sawyer, Hugo e gli altri protagonisti di Lost. Tutti importanti, nessuno indispensabile. 
Tanto che se oggi, a qualche regista (leggi JJ Abrams), venisse in mente di fare un remake moderno di questo libro, beh, sono sicura che ne uscirebbe un capolavoro. 

Un aspetto che mi ha colpita, (né in senso negativo, né positivo, ma solo colpita), è la totale assenza di elementi futuristici o "misteriosi". Elementi che in ogni altro libro di Verne (Michele Strogoff a parte) non mancano mai. Da colui che è considerato un po' il padre della moderna fantascienza, me lo sarei aspettato. Manca persino il piacere della scoperta. Mi spiego meglio: in una terra in parte semi inesplorata come la Patagonia, l'Australia o la Nuova Zelanda, in particolare a metà '800, mi sarei aspettata di finire con la mia carovana di protagonisti, in luoghi completamente vergini dalla presenza dell'uomo, foreste incontaminate e quasi magiche (nel pieno stile di Verne), ma questo non accade mai. La sensazione di viaggiare in luoghi che non hanno quasi nulla da scoprire permea tutto il romanzo. Anche l'incontro con qualche sperduta tribù isolata da sempre, sarebbe stata d'effetto. 

Si tratta, alla fine, di un libro ben scritto (e sfido chiunque a dire il contrario),  che vanta pagine che sono delle piccole perle, nascoste nel mare di prolisse descrizioni faunistiche e geografiche. A mente lucida, ora che l'ho terminato, posso dire che mi è piaciuto, ma durante la lettura, vi assicuro che ho avuto l'istinto in diversi momenti di scaraventarlo contro al muro :)

Andrei avanti ancora molto, in questa mia recensione, perché di cose da dire ce ne sarebbero davvero parecchie, ma mi fermo qua, perché toccare certi argomenti significherebbe fare spoiler. Oddio, ora che ci penso, non è che ci sia molto da spoilerare... :)
Concludo consigliando questo libro solo a chi vuole leggersi l'intera saga. Tutti gli altri possono serenamente saltarlo e passare direttamente al meraviglioso Ventimila leghe sotto i mari, terminando con il meno meraviglioso, ma comunque molto bello e leggero L'isola misteriosa. 

Sarei curiosa di vedere una delle tre trasposizioni cinematografiche, ma ammetto che la cosa mi fa paura.



Vi lascio con una di quelle perle, di cui vi parlavo poco fa. 

"L'insieme di quei terreni ha sulle carte inglesi un nome molto espressivo: “Reserve for the blacks”, la riserva per i neri. È là che gl'indigeni furono brutalmente respinti dai coloni, lasciando nelle loro lontane pianure, sotto boschi inaccessibili, alcuni spazi determinati, in cui la razza aborigena si estinguerà poco alla volta.

Ogni uomo bianco, colono, emigrante o squatter o bushman può superare il confine di quelle riserve, solo il negro non deve mai uscirne.

Paganel, mentre cavalcava, discuteva questa grave questione delle razze indigene e unanime fu il parere a questo proposito, cioè che il sistema britannico spingeva a distruggere le popolazioni conquistate e a cancellarle dalle regioni dove vivevano i loro antenati. Questa tendenza fu notata in ogni luogo, e in Australia più che altrove. Ai primi tempi della colonia, i deportati, i coloni stessi, consideravano i negri come animali selvaggi, li cacciavano e li uccidevano a schioppettate, li trucidavano, e s'invocava l'autorità dei giureconsulti per provare che l'uccisione di quei miserabili non rappresentava un delitto.

I giornali di Sidney proposero persino un mezzo efficace per sbarazzarsi delle tribù del lago Hunter: avvelenarli in massa. Come si vede, gli inglesi, agli inizi della loro conquista, chiamarono l'omicidio in aiuto alla colonizzazione. Le loro crudeltà furono atroci; si comportarono in Australia come nelle Indie, dove cinque milioni d'indiani scomparvero, come al Capo, dove la popolazione aborigena, decimata dai cattivi trattamenti e dall'ubriachezza, tende a scomparire dal continente di fronte a una civiltà omicida.

Gli omicidi si organizzarono su vasta scala e intere tribù scomparvero; per citare solo l'isola Van Diemen, questa al principio del secolo contava cinquemila indigeni e nel 1863 aveva sette abitanti.

— Cinquant'anni fa, — aggiunse Paganel, — avremmo incontrato molte tribù di indigeni, mentre finora non ne è comparso uno. Fra un secolo, questo continente sarà del tutto spopolato della sua razza nera."

sabato 25 agosto 2018

Pray: Mooncrash

25 agosto 0 Comments
Con somma gioia, ospito di nuovo fra le mie pagine Gianluigi, ovvero mio marito :)
Anche lui, come me, ha iniziato una collaborazione con Nerdface.it e in questi giorni sono state pubblicate le sue prime recensioni ufficiali di Pray e del suo DLC Mooncrash.

Potete leggerle sul mio blog, oppure cliccando qua: PRAY e qua: PRAY DLC MOONCRASH

Proseguiamo con Mooncrash :)



L’offerta videoludica degli anni “10” ci ha abituato a vedere i titoli tripla “A” arricchirsi sistematicamente di DLC post lancio. Nessuno però si aspettava un DLC per il Prey di Arkane Studio, reboot del vecchio Prey, uscito nel 2017.
Considerato che il titolo non aveva certo raggiunto dati di vendita esaltanti, si pensava che Prey fosse giunto al termine della sua avventura sugli scaffali dei negozi.
Al contrario, all’E3 del giugno scorso, è stata annunciata a sorpresa un’espansione che di lì a pochi giorni è diventata disponibile: Mooncrash.

Iniziamo subito col dire che non si tratta di un seguito dell’avventura precedente, bensì di un’avventura parallela (o spin-off, se preferite).



Trama senza spoiler

Questa volta interpretiamo Peter, un hacker al soldo della KASMA Corp., incaricato di indagare sul disastro avvenuto sulla base lunare di Pytheas.
Il malcapitato, in orbita attorno alla Luna dentro una capsula, non vede l’ora di tornare dalla sua famiglia, ma deve prima soddisfare le richieste del suo committente.
Per portare a termine il suo compito Peter dovrà, attraverso una simulazione, impersonare i cinque sopravvissuti all’incidente.



Gameplay

Rispetto al gioco base beh… preparativi a qualcosa di molto diverso.
Siamo di fronte a un Roguelike che della sua incarnazione precedente mantiene l’aspetto tecnico (con pregi e difetti), il sistema di controllo, e l’impostazione da shooter.
All’inizio il gioco ci mette nei panni del primo sopravvissuto (unico personaggio selezionabile alla partenza) “il Volontario”.

Immediatamente ci rendiamo conto che nella sua “scheda del personaggio” figurano solo abilità affini ai poteri Typhon, quindi a differenza del gioco base, dove il nostro alter ego godeva di piena libertà nella scelta dei poteri, in Mooncrash ogni personaggio ha una specializzazione ben precisa.
La nostra missione consiste nel guidare lo sventurato a una capsula di salvataggio in modo che possa lasciare la stazione incolume, possibilmente ultimando anche la sua quest personale.
Una volta eseguito il compito verrà sbloccato un nuovo personaggio da estrarre dalla stazione (anch’esso con un set di abilità proprie) e via così finché non avrete sbloccato tutti e 5 gli avatar digitali disponibili.

Ma non pensiate che sia così semplice….
La mappa di gioco è enorme e nasconde insidie a ogni angolo.
Oltre ai soliti infidi Mimic, e tutto il campionario del vecchio Prey, troveremo qualche aggiunta insidiosa come lo Squalo Lunare.
Probabilmente durante la primissima estrazione del Volontario non morirete mai, ma con l’avanzare della Run il gioco vi porterà a morire più e più volte.
Ogni volte che tutti i personaggi a disposizione saranno morti o fuggiti (o un mix di entrambi) la simulazione ripartirà da capo.
Per completare il gioco dovremo estrarre tutti e cinque i personaggi senza morire mai in un’unica Run.

Per ogni reset della simulazione alcuni parametri cambieranno in maniera procedurale (ubicazione delle armi, oggetti, nemici, porte chiuse oppure aperte, ecc...) mentre la mappa resterà sempre la stessa.
Aggiungiamo poi che la simulazione è soggetta alla corruzione: ogni 20 minuti di gioco la corruzione aumenterà di un livello rendendo i Thypon più forti.
Una volta raggiunto il massimo livello, la simulazione avrà termine e verrà resettata.

Fortunatamente la meccanica della morte permanente non è così castrante come in altri Roguelike.
Alla morte di un personaggio tutte le abilità che avrà ottenuto nel corso di quella Run non andranno perdute.
Durante ogni Run otterrete dei punti simulazione per ogni Thypon che eliminerete, utili per comprare equipaggiamento, armi e munizioni, alla partenza (anche i progetti delle armi permangono alla morte).
Ciò significa che i vostri personaggi diverranno man mano sempre più potenti, eliminando quella brutta sensazione di frustrazione, propria dei giochi del genere.

L’ambiente e le risorse a disposizione sono in comune all’interno della stessa Run, quindi se deprederemo un cadavere con un personaggio, i successivi non troveranno niente addosso a quel corpo, così come solo un personaggio con l’abilità hacker sarà in grado di aprire un determinato accesso rendendolo accessibile ai propri compagni in futuro.
Gli obbiettivi personali dei 5 fuggitivi sono una buona idea per aggiungere quel tocco di lore che altrimenti lascerebbe con l’amaro in bocca gli appassionati di Prey.
Tutte queste componenti, e la voglia di scoprire nuovi percorsi e strategie, donano a Mooncrash una buona rigiocabilità.
La longevità della prima partita si attesta circa sulle 10 ore, ma molto è basato sul tempo che dedicherete all’esplorazione della base lunare.



Conclusioni

Di certo Mooncrash offre una variante sul tema di Prey davvero intrigante e rigiocabile, seppur ancorata ai limiti del gioco base su PS4.
Uno sforzo per migliorare la resa grafica sarebbe stato gradito, ma essendo un’espansione di sostanza non si può chiedere di più.
Il grado di sfida che permea questo DLC è palpabile e se avete affrontato Prey al livello di difficoltà facile probabilmente Mooncrash vi farà dannare l’anima e potrebbe risultare troppo ostico e frustrante, nonostante la crescita continua dei vostri personaggi.
Chi invece ha affrontato Talos 1 a livelli più alti gradirà enormemente la sfida che questo DLC offre. Senza dubbio un DLC come se ne vedono pochi.

lunedì 20 agosto 2018

Prey

20 agosto 0 Comments
Con somma gioia, ospito di nuovo fra le mie pagine Gianluigi, ovvero mio marito :)
Anche lui, come me, ha iniziato una collaborazione con Nerdface.it e in questi giorni sono state pubblicate le sue prime recensioni ufficiali di Pray e del suo DLC Mooncrash.

Potete leggerle sul mio blog, oppure cliccando qua: PRAY e qua: PRAY DLC MOONCRASH

Iniziamo con Pray :)



Qualcuno forse ricorderà il Prey del 2006, sviluppato da Human Head Studio, sparatutto sci-fi in soggettiva dal discreto successo.
Per anni si parlò di un seguito, fino al 2014 quando il progetto venne cancellato in favore di un reboot annunciato nel 2016 e uscito nel 2017.
Mantenendo quindi lo stesso titolo andiamo a vedere cosa ci offre questo nuovo Prey.
Siamo di fronte a un titolo molto particolare che non ha un’impronta definita, ma spazia attraverso molteplici generi: la struttura principale è da FPS, con visuale 3D in prima persona e svariate armi a disposizione.
Abbiamo poi la crescita del personaggio che, come in ogni buon Action-RPG, avviene grazie al miglioramento delle abilità.
Non manca la gestione delle risorse come in ogni buon Survival, condita con meccaniche Stealth.
Per finire una componente narrativa davvero marcata.
Si può tranquillamente affermare che siamo di fronte a una grande “operazione nostalgia”, perché moltissimi sono gli elementi presenti in capolavori del passato che Prey ha fatto suoi.
In molti ricorderanno Dead Space, titolo dalle atmosfere molto simili a Prey, oppure Bioshock, dove il protagonista usa i Plasmidi per aumentare le sue capacità (in Prey abbiamo le Neuromod).
Il nostro eroe Morgan Yu è uno scienziato, che come prima arma trova una chiave inglese, proprio come il Dott. Gordon Freeman di Halflife.
Sulle prime si potrebbe avere da ridire sull’originalità di questa produzione Bethesda, sviluppata dai talentuosi Arkane Studios, ma fortunatamente il gioco ha un’anima tutta sua.


Trama senza spoiler

Come detto in precedenza, in Prey impersoniamo Morgan Yu, uno scienziato/a (decideremo noi il sesso del protagonista) che si sta sottoponendo ad alcuni test sulla stazione spaziale di Talos 1.
Su questa enorme stazione, in orbita attorno alla Luna, la TranStar Corporation testa e sviluppa le Neuromod, apparecchi in grado di aggiungere, con una semplice iniezioni oculare dritta fino al cervello, qualsiasi tipo di abilità umana… e non solo.
Lo studio sulle Neuromod è intrecciato a doppio filo con l’analisi di organismi chiamati Typhon, una razza aliena entrata in contatto con l’umanità svariati anni prima.
Durante uno dei test, al quale Morgan si sottopone, avviene un incidente e gli organismi Typhon si liberano dall’area di contenimento invadendo l’intera struttura.
Sarà vostro il compito di cercare di salvare la baracca fermando l’infestazione.


Gameplay

L’arsenale che ha a disposizione Morgan inizialmente è davvero molto scarso e il gioco non è molto generoso nelle prime fasi.
Troverete dapprima la Tuta Transtar e la chiave inglese (unica arma da corpo a corpo) e poco dopo il cannone Gloo.
Quest’ultimo è una delle piccole perle di Prey e consente sia di immobilizzare i nemici con i suoi colpi, sia di creare veri e propri gradini di schiuma che si induriscono a contatto con l’aria.
Grazie a questo tool potremo non solo raggiungere zone non accessibili altrimenti, ma anche spegnere incendi e riparare perdite nei tubi, praticamente un coltellino svizzero in chiave futuristica ma che, ahimè, resta un’arma non letale.
Sin da subito capiremo che persino i nemici più deboli non scherzano affatto.
I Mimic, piccoli organismi Typhon, hanno la capacità di assumere le sembianze di qualsiasi oggetto di piccole dimensioni si trovi nelle loro immediate vicinanze (possono persino sembrare dei medikit o delle munizioni).
Non appena vi avvicinerete a uno di questi piccoli infami, verrete attaccati.
Non sono certo gli avversari più resistenti ma, soprattutto nella prima parte di gioco, non sarà difficile venir sopraffatti da un paio di queste creature, visto che già a difficoltà normale Prey non perdona.
Per affrontare i nemici più impegnativi, e saranno parecchi, avremo bisogno di espandere il nostro arsenale, al quale potremo aggiungere pistole classiche o elettriche, fucili a pompa, armi a raggi, e granate, oltre ai potenti poteri Typhon che sbloccheremo una volta ottenuto lo Psicoscopio.
Tutti le armi e i materiali di consumo potranno essere trovati o fabbricati.
Il crafting è semplice e intuitivo e può essere riassunto con una sola parola: Riciclare.
Nel nostro girovagare per la stazione potremo raccogliere praticamente di tutto, dalle bucce di banana ai cavi elettrici.
Un volta raggiunto un Riciclatore potremo buttarci dentro qualunque cosa vogliamo e con la pressione di un tasto il macchinario scomporrà tutti i gli oggetti che vi abbiamo inserito nei quattro componenti fondamentali per il crafting: Organico, Minerale, Sintetico, Esotico.
Trovando poi un Assemblatore, una volta acquisiti i progetti di un’arma, munizioni, consumabili, persino Neuromod, potremo creare ciò che vogliamo, a patto di avere il giusto numero di materiali da impiegare nel processo.
La tuta e lo Psicosopio possono essere aggiornati mediante chip che ne aumenteranno le capacità, mentre per migliorare le armi avremo bisogno di kit balistici.
Il gioco non è particolarmente generoso nel fornire munizioni al giocatore, dovremo quindi darci da fare col riciclatore per ottenerle ed esplorare meticolosamente per trovare i preziosi progetti necessari alla costruzione.



Cosa va

La stazione Talos 1 è un capolavoro di level design.
Enorme, interamente esplorabile, e bellissima.
Ogni sezione è ben caratterizzata dalla sua funzione e potremo non solo esplorarla all’interno, ma anche dallo spazio, uscendo da un portello di una sezione per poi rientrare in un altro (dovrete prima però sbloccare i portelli dall’interno per sfruttare queste scorciatoie).
Era dai tempi di Rapture (Bioshock) che non vedevo una location così ispirata e viva; si può tranquillamente asserire che Talos 1 sia protagonista di Prey, esattamente quanto Morgan Yu.
Nel nostro girovagare al suo interno troveremo archivi e terminali che ci aiuteranno a capire cosa è successo davvero a bordo della stazione e fidatevi quando vi dico che la componente narrativa è fortissima; il numero di documenti, mail del personale e registrazioni audio è enorme e aiuta il giocatore nell’immedesimazione come pochi altri titoli di questa generazione.
Diversi sono i sopravvissuti che incontrerete e che chiederanno il vostro aiuto; potrete scegliere se aiutarli oppure no, perché in Prey nulla è obbligatorio e tutto può essere risolto in più di un modo grazie alle scelte morali che sarete chiamati a compiere e dal già citato ottimo level design che permette di raggiungere una location in più modi.



Cosa non va

Arrivati sino a qui vi chiederete se non siete davanti al gioco perfetto.
Purtroppo non è così.
Il sistema di controllo in Prey non è dei più precisi e ha un piccolo problema di input lag che lo affligge sin dal giorno dell’uscita, arrivati ora alla versione 1.06 del titolo qualche miglioramento è stato fatto, ma mirare è ancora un’esperienza erratica, vi capiterà spesso nelle fasi più concitate di sparare e mancare il bersaglio.
Se da un lato questo può aumentare le caratteristiche survival del titolo, di certo può risultare frustrante per gli amanti degli FPS in generale (i meno giovani si ricorderanno la mira scadente dei primi Resident Evil e il famoso “piede perno” durante i movimenti: tutte “features” volute per aumentare l’immersività).
Molto spesso preferirete allora cercare di evitare i Typhon piuttosto che combatterli a viso aperto, ma non sempre sarà possibile e quindi le fasi di fuoco restano comunque cruciali.
Un altro lato pesantemente negativo è il backtracking a cui sarete costretti, che in sé non sarebbe cosa affatto negativa se non per i caricamenti eterni fra una sezione e l’altra.
Sulle prime non percepirete il problema, perché affrontando una sezione per la prima volta avrete tanto da fare e al suo interno ci passerete parecchio tempo, ma da metà gioco in poi potreste dover attraversare tre o più sezioni già visitate solo per trovare un oggetto di una quest secondaria per poi tornare indietro. Non è raro trovarsi ad avere un giocato di 5 minuti a fronte di 10 di caricamento.
Nonostante l’ultimo aggiornamento qualche glitch affligge ancora il gioco, con sporadici blocchi o compenetrazioni infauste che fanno precipitare il personaggio al di sotto della mappa di gioco, costringendo al caricamento del salvataggio più recente.
La colonna sonora è funzionale al gioco ma niente più di questo, non ve ne ricorderete di certo.
Alcune texture non sono proprio le migliori mai viste e, graficamente parlando, i modelli poligonali, i volti dei personaggi e le loro espressioni non sono al livello di altre produzioni del 2017.
Le differenze fra la versione PS4 e PS4pro si fermano a un antiliasing più efficiente (16x), una migliore gestione di luci e ombre e allo screen-space reflections, cose che tutto sommato un occhio distratto potrebbe non notare, uno sforzo per portare il frame rate oltre i 30 sarebbe stato gradito.
Il doppiaggio italiano è anonimo, senza infamia e senza lode.
Le fasi a gravità zero fuori dalla stazione sono spesso frustranti a causa della mancanza di una mappa e quindi la buona idea di utilizzare i portelli come scorciatoia fra sezioni distanti cade presto nel vuoto, ci andrete di conseguenza solo quando il gioco vi obbligherà a farlo.
Le armi presenti sono davvero poche e, a parte il fucile a pompa, non restituiscono un grande feeling. Il Q-Beam, che dovrebbe essere “l’arma di fine di mondo”, spara un piccolo raggio verde davvero poco gratificante da vedere, seppur efficacissimo.
Una volta acquisito lo Psicoscopio, avrete la possibilità di aggiornalo per vedere i Mimic anche quando sono “mascherati” da oggetti. Inizialmente sarete entusiasti di non dover più girare per la stazione temendo d’essere preda di attacchi a sorpresa, ma la visione attraverso il visore è a dir poco disturbante: tutto assume una colorazione monocromatica sui toni del blu con righe traccianti in continuo movimento.
Sarà quindi un continuo attivare e disattivare la modalità visuale per evitare di perdere gli occhi sullo schermo.



Conclusioni

Tirando le somme si può dire che Prey è un gioco realizzato in maniera impeccabile per ciò che concerne il comparto narrativo e il level design. Sistema di crescita del personaggio e crafting sono appaganti e permettono al giocatore di affrontare il gioco come meglio crede arrivando a creare un ingegnere specializzato oppure un esper potentissimo.
Peccato per la realizzazione tecnica su Ps4 Pro, per il sistema di controllo durante le fasi di fuoco, e per alcune imperfezione nel gameplay.
Sarebbe potuto essere un capolavoro assoluto, perché di buone idee ce ne sono tante, ma purtroppo siamo di fronte solo ad un buon gioco che poteva essere molto di più.

venerdì 3 agosto 2018

Il Giardino Segreto - Frances Hodgson Burnett

03 agosto 0 Comments

Uno dei libri che ho adorato quando ero bambina è Il Giardino Segreto, di Frances Hodgson Burnett, autrice, fra le altre cose, del famosissimo Piccolo Lord. Qualche mese fa ho deciso di rileggerlo, chiedendomi se una rilettura in età adulta mi avrebbe fatto cambiare idea oppure no. Beh, confermo che si tratta di un libro adatto ai bambini, ma perfetto anche per gli adulti. 

Andiamo a vedere un po' di trama.

Mary Lennox è una bimba di 10 anni nata in India da genitori inglesi, che non si sono mai presi cura di lei e non le hanno mai mostrato affetto. Di conseguenza la bambina cresce viziata ed egoista. Dopo la perdita di entrambi i genitori, Mary viene affidata alle cure di un ricco zio vedovo, il signor Archibald Craven, che vive in Inghilterra. La bambina viene accolta con freddezza dalla signora Medlock, la governante di casa Craven. La donna la informa che lo zio non è quasi mai a casa e che Mary dovrà rimanere nelle sue due stanze da sola. Diverso nei confronti della bambina è l'atteggiamento di Martha, una giovane cameriera di origini contadine, appartenente a una famiglia povera e numerosa, la quale tratta Mary con bontà e gentilezza, la spinge a diventare autonoma e le fa scoprire i lati positivi del nuovo ambiente. Dapprima Mary prende in antipatia la vasta residenza, le persone che vi abitano e la brughiera circostante, che le sembra desolata e cupa in inverno, ma Martha le assicura che in primavera, quando i fiori saranno sbocciati, tutto sembrerà più allegro.

Una tragica vicenda riguardante la defunta signora Craven colpisce molto Mary: la signora amava coltivare rose in un giardino nel quale c'era anche un'altalena, dalla quale la signora Craven era malamente caduta e conseguentemente morta. Allora il signor Craven, disperato, chiuse la porta di accesso al giardino e seppellì la chiave, in modo da non aver più a che fare con quel luogo. Mary, incuriosita, cerca di scoprire dove sia il giardino e anche di individuare l'origine di un pianto misterioso che qualche volta ha sentito nella casa e che il personale di servizio nega.
La bambina comincia a trascorrere sempre più tempo nel parco e nella brughiera, inizialmente da sola, poi in compagnia di Ben, un giardiniere anziano e un po' burbero ma d'animo buono e di un amichevole pettirosso.

Durante una delle esplorazioni nel parco, Mary trova in una buca la chiave del giardino e più tardi ne scopre la porta d'ingresso, nascosta dall'edera. Il giardino, invaso dalle erbacce, ha bisogno di cure, e Mary, che non ha né la competenza né attrezzature per intervenire, chiede aiuto a Dickon, fratello dodicenne di Martha. Dickon è un ragazzino gentile, profondamente affezionato alla natura e in grado di capire il linguaggio degli animali, che promette a Mary di non confidare a nessuno la scoperta riguardante il giardino segreto.
Una notte Mary sente di nuovo il pianto misterioso...

Qua mi fermo, per non fare spoiler. 
Il giardino della casa inglese dove abitò la Burnett, possibile fonte di ispirazione per il libro.
Il libro, ormai datatissimo - nasce nel 1911 - è stato pubblicato in molte lingue e ne sono stati tratti anche dei lavori cinematografici. Con il titolo originale The Secret Garden è apparso dapprima a puntate, a partire dall'autunno 1910, in The American Magazine, un periodico americano che si rivolgeva a lettori adulti, poi è divenuto un libro. La Burnett era appassionata di giardinaggio e considerava questa attività altamente pedagogica e addirittura terapeutica sia dal punto di vista fisico che da quello mentale. L'autrice aveva praticato questa sua passione negli Stati Uniti (nel giardino della sua abitazione privata nello stato di New York) e in Inghilterra, dove la Burnett abitò dal 1890 al 1907.

All'epoca l'educazione dei bambini e degli adolescenti era molto rigida e impartita solo da adulti (genitori e insegnanti) e la scarsa igiene - immaginate un bambino non vaccinato che gioca all'aperto a contatto con gli animali e le piante - era portatrice di svariate patologie, quindi i bambini, soprattutto appartenenti a ricche famiglie, venivano tenuti sempre sotto controllo e costretti quasi a vivere sotto una campana di vetro, per altro divisi fra maschi e femmine, perché non era decoroso per una bimba giocare e stringere un legame con un maschio.
L'autrice invece era fermamente convinta che i ragazzini potessero educarsi anche fra loro, interagendo - formando amicizie solide anche fra maschi e femmine - e giocando insieme all'aperto, dove anche il corpo avrebbe beneficiato dell'aria pulita, del Sole e della natura. Il Giardino Segreto, inizialmente non apprezzato quanto Il Piccolo Lord, ha sdoganato questa filosofia, diventatando un testo quasi rivoluzionario per l'epoca.
Personalmente lo consiglio a tutti, adulti e bambini e anzi, consiglio di leggerlo ad alta voce ai propri figli, magari prima di dormire, quasi come fosse una fiaba. E' un libro altamente educativo, ve lo posso assiscurare. 

Bello ed educativo :)

There's no place like 127.0.0.1